ARRAPAHO

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ITALIA, 1984

REGIA: Ciro Ippolito

CAST: Urs Althaus, Tinì Cansino, Daniele Pace, Armando Marra, Marta Bifano, Gigio Morra, Giancarlo Bigazzi, Nello Pazzafini

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Definito da molti un “capolavoro del trash”, Arrapaho si piazza sicuramente nell’Olimpo delle pellicole più folli e coraggiose mai realizzate, anche se il termine anglofono non è di quelli esatti. Per “trash” si intende tutto ciò che, in maniera involontaria suscita grasse risate, ma Ciro Ippolito questo delirio l’ha realizzato con cognizione di causa, quindi possiamo definirlo “caricaturiale”, “demenziale” o, se preferite, prendendola (molto) alla larga una parodia dei film western, ma scordatevi la parola “trash” una volta tanto, ché il termine è iperabusato e alla fine significa poco e nulla.

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E’ quasi impossibile inquadrare una trama che, volutamente, fa finta di esserci ma non esiste: in mezzo a un prato c’è un accampamento di indiani formato da alcuni componenti degli Squallor (gruppo musicale specializzato in canzoni scombinate) e da Tinì Cansino (in rampa di lancio per Drive In di Italia 1). I personaggi danno vita a gags e a storielle incentrate sulla loro vita all’interno del villaggio, mentre finte pubblicità di volta in volta interrompono la narrazione.

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Battute memorabili (“Ti vedo molto nervosa, che hai? “Sono quattro giorni che non cago”, oppure “figlia, tu mi fiuti una buona stella”, allisciami ‘sta cappella”) si alternano a dialoghi che non fanno ridere, ma è il progetto nel suo insieme a essere notevole per la sua follia. Fra guerrieri gay (c’è anche la tribù dei Froceyenne) e trovate che guardano molto alla tv degli anni ’80 (dall’acqua del fiume esce il sosia di Cesare Ragazzi), Arrapaho è costato una manciata di spiccioli e ha incassato un vero e proprio patrimonio, diventando col tempo un film di culto. Tra scorribande in mezzo ai prati, dialoghi volgarissimi e canzoni demenziali (sempre degli Squallor), di volta in volta Ciro Ippolito snocciola una sequela di situazioni che, volutamente, non portano da nessuna parte ma che danno l’impressione dell’esatto contrario di ciò che verrebbe definito “umorismo all’inglese”.

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C’è un po’ di tutto: tette, attributi sessuali, peni paragonati a trivelle, peti e diarrea, carne in scatola sputata in faccia a chi l’ha servita in tavola, richieste sessuali fatte al citofono, prostitute con le piattole, mutande sporche per colpa dell’assenza di detergente intimo, danze della pioggia che ricordano Gigliola Cinquetti (per far piovere viene recitata la frase “la pioggia non bagna il nostro amore quando il cielo è blu“), corse estenuanti per non perdere il tram, un nudo integrale di Tini Cansino e tanti monologhi improvvisati. Se c’è un film dove la regola del “buona la prima” vale, questo è Arrapaho.

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Sarebbe impossibile oggi fare un film del genere; nessuno metterebbe più dei soldi per un progetto così e tante battute sarebbero di questi tempi improponibili: immaginatevi cosa succederebbe a riproporre una gag come quella di Pierpaolo (forse tra le più famose del film), un ricco rampollo che, in vacanza a Rio De Janeiro parla al telefono con la cameriera e la prende in giro (“Chi è, quella cretina della negra”?). Altri tempi, davvero.

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Curiosità: In una piccola parte è possibile riconoscere Marta Bifano (figlia dell’attrice Ida Di Benedetto) che snocciola una fila di offese deliranti a un amante troppo focoso che insiste per avere un rapporto sessuale (“Berta, c’ho un toro nelle mutande che scalpita per te”).

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